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In questo libro, Arrigo Petacco ci racconta la verità sulle gesta quasi leggendarie del prefetto Cesare Mori, incorruttibile funzionario "piemontese", inviato dal governo fascista in Sicilia per debellare la mafia. Compito che svolse fin da subito con grande efficacia, anche grazie a metodi non sempre ortodossi e alle ingenti forze di cui era stato dotato: un vero piccolo esercito, l'intera Procura di Palermo a sua disposizione, poteri straordinari che utilizzò oltre i limiti della legge. La sua azione energica permise di distruggere quasi interamente la struttura di base della malavita organizzata siciliana e offrì a Mussolini un argomento per la sua propaganda. Ma quando Mori iniziò a diventare troppo famoso e soprattutto a indagare troppo in alto, venne messo da parte, e le tracce del suo lavoro accuratamente eliminate. Quella del "prefetto di ferro", è una storia tipicamente italiana, incentrata su un personaggio prima mitizzato poi dimenticato, che Petacco restituisce finalmente alla sua verità storica. IL PREFETTO DI FERRO. L'uomo di Mussolini che mise in ginocchio la mafia. Prefazione. Anni orsono, quando svolgevo le prime ricerche che mi avrebbero poi consentito di scrivere questo libro, Cesare Mori era un nome poco noto e molto diffamato. La cultura dominante, votata a criminalizzare o a nascondere anche le opere meritevoli realizzate dal fascismo, aveva relegato quest'uomo che fu indiscutibilmente l'unico, in più di centotrent'anni di storia nazionale, a mettere la mafia in ginocchio nell'angolo, per così dire, dei «cattivi». Storici autorevoli ignoravano del tutto l'efficacia della sua azione e lo liquidavano con poche sprezzanti parole definendolo un «arnese» del regime responsabile di repressioni illegali e indiscriminate. Lo stesso Renzo De Felice, il più obiettivo fra gli storici del fascismo, nella sua monumentale biografia mussoliniana dedica al Prefetto di ferro due rapide note a piè di pagina nel 3º volume (Mussolini il fascista. 1924-1929): una per riferire che Mussolini «affidò a Mori la repressione della organizzazione mafiosa in Sicilia»; l'altra per ricordare che, come «uomo gradito ai fascisti» fu indicato da Federzoni quale possibile sostituto del Capo della polizia Crispo Moncada. Insomma, l'intensa opera di annebbiamento della storia effettuata dalla mafia fin dall'immediato dopoguerra per cancellare ogni traccia positiva dell'azione svolta da Mori in Sicilia (fra l'altro, scomparvero misteriosamente dall'Archivio di Stato tutti i fascicoli che documentavano l'intera inchiesta) aveva dato i suoi frutti. Col risultato che, una volta stabilito che Mori era stato un «arnese» del fascismo, ne conseguiva che le sue vittime potevano vantare, come dire?, dei meriti antifascisti. E infatti non furono pochi i boss che si avvantaggiarono di questa opportunità. È noto, per esempio, che i due più noti e potenti padrini del dopoguerra, don Calogero Vizzini e Genco Russo (che Mori aveva spedito in carcere o al confino), ebbero addirittura la soddisfazione di vedersi assegnare la croce di cavaliere della Repubblica a compenso delle «persecuzioni» subite. Questa era dunque la situazione quando cominciai le mie ricerche e devo confessare che quel clima condizionò in parte anche la mia penna. D'altra parte, tutto lo scarso materiale a mia disposizione confermava quella tesi. Il nome di Cesare Mori lo trovavo ovunque confuso fra i relitti del passato regime. Era un nome che evocava soltanto leggi speciali, carcere duro, repressioni indiscriminate, abolizione di ogni garantismo, deportazioni coatte e tante altre terribili misure che, si pensava allora, una sana democrazia doveva assolutamente respingere. Ad aprirmi uno spiraglio di luce nella nebulosa in cui mi muovevo fu Carlo Delcroix, un superinvalido della guerra '15-'18 (era privo della vista e delle braccia) che fu un personaggio di primissimo piano durante il ventennio fascista. Delcroix figurava nell'elenco dei testimoni oculari che via via andavo intervistando per le mie ricerche. Vecchissimo, ma molto lucido, egli viveva a Roma, in piazza Adriana 5, proprio sotto l'appartamento abitato da Pietro Nenni. A Delcroix chiesi dunque di Mori e subito mi sorprese una certa acrimonia che egli rivelava nei confronti di questo personaggio del quale, invece, come fascista, avrebbe, a mio parere, dovuto dire un gran bene. «Ma Mori non era dei vostri?», lo interruppi ad un certo punto. «Non era un uomo di Mussolini?» «Ma neanche per sogno!», ribatté il grande invalido. «Mori era un uomo della vecchia Italia. Nel '22, quando era prefetto di Bologna, si rivelò il nostro principale avversario. Ricordo che gli squadristi emiliani cantavano una canzone in cui si chiedeva la sua testa. Uomo di Mussolini lo diventò più tardi, quando lo mandarono in Sicilia. Ma non fu mai un vero fascista». E allora? Le mie antenne di vecchio cronista cominciarono a vibrare. Evidentemente c'erano nuove piste da battere. E fu così che dopo lunghe ricerche riuscii