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Tra il 1933 e il 1945, milioni di ebrei furono intrappolati nella macchina di sterminio nazista, vivendo un inferno che iniziava già dal momento in cui scendevano dai treni sovraffollati e senza ventilazione. L’arrivo in campi come Auschwitz, Majdanek o Treblinka significava una selezione immediata: un semplice gesto della mano decideva chi avrebbe vissuto ancora qualche settimana come schiavo e chi sarebbe stato inviato direttamente alle camere a gas. Il processo di disumanizzazione era meticoloso: rasatura forzata, tatuaggi con numeri, confisca dei beni e un trattamento che riduceva le persone a semplici oggetti all’interno di un ingranaggio di morte. La vita quotidiana nei campi era segnata da fame estrema, lavori forzati estenuanti, violenza costante e malattie senza cure. La razione di cibo — appena un pezzo di pane e zuppa annacquata — indeboliva rapidamente i prigionieri, mentre il freddo, il sovraffollamento e la brutalità delle guardie spezzavano la resistenza fisica e mentale. Bambini, donne e anziani erano vittime di abusi, esperimenti medici e umiliazioni pubbliche. La routine era pensata non solo per sfruttare la forza lavoro, ma anche per distruggere la volontà e cancellare ogni identità. Nonostante le condizioni disumane, alcuni prigionieri riuscivano a compiere piccoli atti di resistenza: condividere il pane, proteggere un bambino, memorizzare nomi affinché non andassero perduti nell’anonimato. Tuttavia, la grande maggioranza soccombeva alla fame, alle malattie, allo sfinimento o alle esecuzioni di massa. La fine della guerra rivelò a un mondo inorridito i crematori ancora fumanti, le fosse comuni e i sopravvissuti ridotti a scheletri. Raccontare com’era la vita di un ebreo durante l’Olocausto significa preservare la memoria di un genocidio industrializzato, affinché non si ripeta mai più.