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Tratto da "Ci ragiono e canto n.4" di Dario Fo (1977) canta Piero Sciotto Un servu tempu fa de 'sta piazza, prigava Cristu 'n cruci e nci dicìa: "Cristu lu me padruni mi strapazza, mi tratta comu 'n cani pi la via, si pigghia tuttu co la so' manazza, mancu la vita mia dici ch'è mia, si mi lamentu peju m'amminazza, mi lega alla catina e marturia. Cristu l'affido a tia sta mala razza, distruggila Gesù fallu pi mia" Al jorn del judici parrà qui avrà fei servici (intermezzo tratto da un canto in lingua catalana - Alghero) Cristu l'affido a tia sta mala razza, distruggila Gesù fallu pi mia" E Cristu nci rispunni da la cruci "Picchì? Chi l'hai spezzati tu li vrazza (susitivi! susitivi!) o puru si 'nchiuvatu cumu a mia. (susitivi! susitivi!) Cu voli la giustizia si la fazza, (susitivi! susitivi!) nessuno fa giustizia pi tia. (susitivi! susitivi!) Si tu si omu e non si testa pazza (susitivi! susitivi!) pigghia a profittu la sintenzia mia, (susitivi! susitivi!) ca iu 'nchiuvatu 'n cruci non saria (susitivi! susitivi!) s'avissi fattu ciò cu dicu a tia!" (susitivi! susitivi!) segue un articolo tratto da http://www.argocatania.it/2010/09/05/... Malarazza Tu ti lamenti ma che ti lamenti/ pigghia nu bastune e tira fora li denti Queste le parole del ritornello di Malarazza, almeno nelle esecuzioni di artisti quali Domenico Modugno, Carmen Consoli, Ginevra Di Marco, Mario Venuti, Roy Paci, I Lautari. Ma qual è la storia e di cosa parla questo famoso canto popolare siciliano? Il testo lo troviamo, per la prima volta, nella "Raccolta di canti popolari siciliani" pubblicata a Catania dal marchese Lionardo Vigo nel 1857. Un servo prega Cristo di liberarlo dalle angherie del padrone e di distruggere questa 'mala razza'. In questa versione, Cristo risponde invitandolo al perdono "a chi ti offende, bacialo e abbraccialo, e in Paradiso siederai con me". Ma, fa notare Francesco Giuffrida, non si tratta del testo originale. Le parole, infatti, erano state modificate per sfuggire alla censura del Regno delle Due Sicilie, che ne aveva vietato la pubblicazione. Caduti i Borboni, si afferma la versione corretta (che troviamo nella 'Raccolta amplissima di canti popolari siciliani' dello stesso Vigo, edita dopo il 1870) nella quale, invece, Cristo invita il servo alla ribellione "E tu hai forse storpie le braccia/oppure le hai inchiodate come me?/Chi vuole la giustizia se la faccia/né speri che altri la faccia per te". Dopo la 'Raccolta amplissima', importanti ricercatori, tra gli altri Ermolao Rubieri e Antonino Uccello, si occuperanno della canzone, che, nei primi anni '70, verrà riproposta da Dario Fo nello spettacolo 'Ci ragiono e canto'. E qui, come osserva acutamente Francesco Giuffrida, "il lamento del servo davanti al Cristo trova una collocazione di grande rilievo [....] Dario Fo inserisce dopo ogni endecasillabo della risposta del Cristo un impetuoso susitivi (alzatevi, sollevatevi); e affida a una voce solista i versi della risposta e a tutto il coro l'intercalare susitivi. L'effetto è davvero molto efficace e tende a potenziare l'aspetto sociale e collettivo della ribellione a scapito di quello individuale". Al contrario, sempre secondo Giuffrida, gli artisti citati all'inizio non colgono pienamente l'aspetto sociale della ribellione, rischiando, così, di sottolineare oltremisura la soluzione individuale, da giustiziere della notte. Soluzione individuale che, in Sicilia, rischia di alimentare una distorta lettura del fenomeno mafioso, già presente, peraltro, in queste affermazioni del Pitrè, del 1889 "Il mafioso vuole essere rispettato e rispetta quasi sempre. Se è offeso non ricorre alla Giustizia, non si rimette alla legge". "Modugno" scrive Giuffrida "non percepisce questo pericoloso aspetto presente nel canto; anzi lo potenzia con l'inserimento del ritornello di cui abbiamo già detto, ripetuto circa dieci volte". Ed è quest'ultima la versione attualmente più diffusa, fatta propria da artisti che" conclude Giuffrida "hanno adottato per il loro repertorio l'esecuzione più apparentemente battagliera e 'rivoluzionaria', capace di trascinare le folle dei concerti con un'orecchiabilità che fa passare in secondo piano il contenuto e ogni possibile riflessione critica. Che, se ci pensiamo bene, è la prima vittima di questo tipo di raduni in cui il saltare, il ritmare, l'agitarsi insieme, rappresentano il triste sostituto di quello che tutti noi dovremmo ricercare per capire quello che ci succede intorno: ragionare assieme". Tratto da: Francesco Giuffrida, La rivista del Galilei n° 17 maggio 2001