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In questa prima lezione introduciamo il concetto antropologico di cultura. Per ragioni di copyright, YouTube mi ha imposto di cancellare l'audio dei due minuti in cui abbiamo sentito in aula la canzone di Leonard Cohen. Carico il video nella playlist, ma potete accedere anche da questo link: • Leonard Cohen - Anthem (w/lyrics) London 2008 La prima lezione del corso di Antropologia culturale introduce studenti e studentesse al cuore della disciplina: lo studio della cultura intesa come sapere appreso, distinto dalle capacità innate. Dopo alcune informazioni organizzative sul corso e sull’esame, Pietro Vereni propone una riflessione metodologica sul ruolo dell’antropologia come scienza: non solo interpretazione dei significati, ma anche ricerca di spiegazioni e regolarità nei comportamenti umani. Si parte dal concetto di legge: nelle scienze naturali come nella società, la legge rimanda sempre a un’autorità. Anche la scienza, agli inizi, presupponeva un ordine garantito da Dio o da un principio superiore; per questo aveva senso cercare “leggi di natura”. L’antropologia nasce in questa tensione: descrivere e interpretare, ma anche spiegare perché le persone agiscono in certi modi. Viene introdotta la nozione di rito di passaggio: ogni società richiede procedure che trasformano un neonato in un membro pieno della comunità. Dal battesimo cristiano alla circoncisione ebraica fino alle iniziazioni “primitiviste”, si tratta sempre di pratiche che rendono umano ciò che biologicamente non basta. È un esempio di come l’antropologia comparativa ricavi categorie concettuali da pratiche diverse. La lezione affronta poi il nodo della cultura come sapere appreso. Non basta la natura: ciò che è commestibile o disgustoso, i modi di camminare o di parlare, perfino la postura eretta, dipendono dall’apprendimento sociale. L’essere umano è incompiuto, fragile, ma proprio questa “imperfezione” diventa la sua forza: la tecnica e il simbolo (tèchne) completano ciò che la biologia lascia mancante. Rita Levi Montalcini parlava di “elogio dell’imperfezione”; Leonard Cohen canta “there is a crack in everything, that’s how the light gets in”. Si discutono anche le culture animali: orche che trasmettono tecniche di caccia, scimpanzé che insegnano l’uso di strumenti, persino orsi come M49, il “Papillon” del Trentino, la cui biografia mostra quanto anche gli animali possano interiorizzare regole e comportamenti collettivi. Tuttavia la cultura umana si distingue per la cumulatività: ciò che viene appreso non va perso, ma si accumula generazione dopo generazione grazie a spiegazioni intenzionali e alla tendenza alla sovra-imitazione. È il cosiddetto “effetto cricchetto” (ratchet effect, Tomasello): una volta acquisita, una tecnica non si perde più, e su di essa si costruisce altro. La transizione neolitica e l’invenzione dell’agricoltura mostrano bene questa capacità. Un altro tema chiave è la distinzione tra apprendimento formale e informale, e tra sapere linguistico e sapere corporeo. Una lezione universitaria o una scuola di danza rappresentano esempi di apprendimento formale; la trasmissione familiare di un mestiere o l’acquisizione spontanea di un dialetto sono forme di apprendimento informale. Alcuni saperi, soprattutto quelli del corpo (come la costruzione delle forcole veneziane), rischiano di scomparire se non trasmessi direttamente da maestro ad allievo. La cultura, conclude Vereni, è sapere appreso, condiviso e simbolico: riguarda regole implicite e pratiche ordinarie tanto quanto riti solenni e istituzioni. È ciò che rende gli esseri umani capaci di trasformare la loro vulnerabilità biologica in una potenza adattiva senza paragoni.