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Cultura incorporata e cultura condivisa: dal sapere implicito alla complessità dei moduli culturali La quarta lezione del Modulo A di Antropologia culturale affronta il cuore del concetto di cultura come sistema appreso e condiviso. A partire dalla distinzione tra sapere formale e sapere informale, Pietro Vereni mostra come molte delle nostre conoscenze culturali siano naturalizzate, cioè interiorizzate a un livello così profondo da risultare invisibili alla nostra coscienza. Attraverso esempi linguistici e quotidiani – dall’accento regionale alle regole fonologiche implicite dell’italiano – emerge l’idea che la cultura funzioni come un insieme di regole incorporate, apprese per imitazione e applicate inconsapevolmente. È il principio per cui “sappiamo più di quanto sappiamo di sapere”. Da qui si apre una riflessione epistemologica sul ruolo dell’antropologo: comprendere e rendere visibili le strutture che operano sotto la soglia della coscienza collettiva, come uno psicoanalista culturale. L’antropologia, in questo senso, è una disciplina che “rende visibile l’acqua in cui nuotiamo”, per citare la celebre parabola dei due pesci di David Foster Wallace. Il discorso si amplia poi alla costruzione delle gerarchie culturali: partendo da esempi quotidiani (il pianista, l’intrecciatore di vimini, il gamer), Vereni introduce la teoria del gusto di Pierre Bourdieu, che mostra come le preferenze estetiche e morali non siano espressioni individuali, ma prodotti di una struttura sociale fatta di capitali culturali ed economici, ereditati e acquisiti. Il gusto legittimo, quello in via di legittimazione e quello libero corrispondono a differenti posizioni nello spazio sociale, che Bourdieu rappresenta come un campo multidimensionale, non più una semplice piramide di classe. Nella seconda parte, la lezione affronta criticamente l’idea che “la cultura è condivisa”. Attraverso la storia di una famiglia trasteverina e della badante ucraina, Vereni mostra come la condivisione culturale sia in realtà un intreccio di pratiche, generazioni, generi e traiettorie di vita, più che un’identità compatta e omogenea. La variabile nazionale conta meno di quelle generazionali o di genere, e la cultura va letta come un insieme di moduli mobili, che si spostano nello spazio e nel tempo – dai tatuaggi al matrimonio monogamico, dall’agricoltura allo smartphone. Infine, la lezione smonta il pregiudizio del “noi con noi, loro con loro”: la retorica della “casa nostra”, tanto cara ai nazionalismi, si fonda sull’illusione di una purezza originaria che non è mai esistita. Le culture, dice Vereni, sono flussi in costante trasformazione, non blocchi fissi; e la vera sfida antropologica è riconoscere le differenze interne (di genere, età, classe, gusto) più che esaltare confini tra “noi” e “loro”. La prossima lezione ripartirà da qui: perché cadiamo così facilmente nel pregiudizio della cultura come entità omogenea e separata? Quali meccanismi cognitivi e sociali alimentano questa illusione di compattezza culturale?